martedì 31 maggio 2016

HAPPY BIRTHDAY MRS. ICON


Si può dire qualcosa di nuovo su Marilyn, a novant'anni dalla nascita (1° giugno 1926) e a quasi 34 dalla morte? Considerato che sul suicidio, nel tempo diventato sempre meno convincente, si preferisce non parlare… Eppure i tentativi continuano, ma nel caso di Marilyn Monroe. La donna 
     
oltre il mito a Palazzo Madama, Torino (dal 1° giugno al 18 settembre) non è un tentativo, ma un'operazione perfettamente riuscita. Dietro la rassegna  il progetto  ambizioso e intelligente di dare una continuità, un filo rosa alla vita di quel palazzo  voluto da  Cristina di Francia. Cioè una serie di mostre su donne icone, o perché artiste o perché muse ispiratrici di artisti. Con una connotazione più popolare, per interessare  pubblici più ampi. Non a caso la presenza del sindaco Piero Fassino, in piena campagna elettorale, per la presentazione alla stampa. Nel grande salone al pianterreno la storia dell'attrice è raccontata attraverso cimeli della sua vita di star, ma soprattutto di donna, circa 150  raccolti per la maggior parte dal collezionista tedesco Ted Stampfer. Dai  copioni dei film, le buste delle lettere dei fans,  le chiavi del camerino  della 20th Century Fox a pezzi di intimità come i  bigodini con qualche suo capello ossigenato, le ciglia finte, il mascara. Dall'agenda con i nomi dei suoi prestigiosi contatti al testamento, dagli scontrini delle sue spese in un viaggio in Messico all’assegno per l’acquisto dei pesi(v.foto). Accanto a scatti tratti da film, ci sono le foto dei grandi fotografi  come Milton Greene, George Barris, Eliott Erwitt (v.foto) e un’opera d’arte come le Four Marilyns di Andy Wharol. Tra gli abiti  di scena  come il  lungo da sirena di Il principe e la ballerina o il mitico prendisole con gonna plissé soleil di Quando la moglie  è in vacanza ci sono quelli dei suoi miti. Il costume nel velluto verde delle tende  di Rossella  O’Hara-Vivien Leigh, o la vestaglia in seta di Jean Harlow in Pranzo alle otto. Sono invece di Marilyn  le calze di Christian Dior, ancora intatte, con cui lei definiva la sua altezza:"Sono alta un metro e sessanta con le calze di nylon ". O  la camicia in seta stampata di Emilio Pucci, il suo stilista preferito (è stata sepolta con un suo abito), del 1961 o i jeans e le maglie a righe del cui uso è stata un'antesignana. Immancabile la boccetta di Chanel 5, il suo pigiama. Molto simile per le note dolci a MM il profumo dedicato a lei da Sileno Cheloni per Aqua Flor. Un omaggio alla diva come il cocktail 

giovedì 26 maggio 2016

(C)REATO AD ARTE


Normale la difficoltà di descrivere le sensazioni davanti a un’opera d’arte. Inusuale, invece, la difficoltà di descrivere l'opera stessa. Come accade per Tutela dei beni: corpi del(c)reato ad arte di Alessandro Bergonzoni. Non è casuale e fa pensare che  l’emozione dell’osservatore faccia parte di quello che tecnicamente è definito esposizione-proiezione-intervento. Perché, come dice anche l’autore, non è uno spettacolo, ma qualcosa di più vicino alla performance, forse.   E’ stato oggi nella Sala della Passione della Pinacoteca di Brera. Dura 25 minuti e si ripete tre volte nella giornata. Il titolo e il sottotitolo Il valore di un’opera, in persona potrebbero fare pensare ai soliti intelligenti giochi di parole di Bergonzoni. Come anche quello che dice la sua voce all’inizio, nella sala completamente buia e chiusa. Le analogie, gli accostamenti per assonanza, l’assurdo che diventa reale. Quel Vi voglio un gran bene seguito da un bene storico, un bene comune, culturale. Oppure quelle frasi perentorie, solo apparentemente surreali come L’umanità ha la più immensa collezione d’arte privata: gli esseri viventi. Poi arriva la luce, entra Bergonzoni e fissa un grande rettangolo proiettato sull’unica parete senza dipinti.  Emerge una macchia in basso, forse una bocca. Sembra di intravvedere una porta e la bocca è solo un’ombra, e a poco a poco esce drammatica, penetrante, angosciante quella foto del viso torturato di Stefano Cucchi, che abbiamo vista e rivista. Qualche attimo e scompare, sul muro ritorna il rettangolo di luce bianca. L’autore resta lì. Si sente la sua voce che parla di confine. Tra il bello e il male? Quando ti sentirai abbattuto tra le bellezze di un quadro ritrovato del ‘600 e un morto d’incuria della cronaca del ‘900? Ed ecco il discorso della tutela, del rispetto. Quale confine tra un capolavoro classico e un corpo che rappresenta l’anima? Da un lato si vorrebbe che queste frasi, apparentemente sconnesse, continuassero per farci riflettere, dall’altro ci piacerebbe che la voce tacesse, per non sentirci in colpa. E forse anche quell’impossibilità del pubblico di riuscire a stare nel completo silenzio senza tossire, muoversi, bisbigliare è una forma di difesa.    

venerdì 20 maggio 2016

SCENA DI UN MATRIMONIO


L’ambiente è importante in una presentazione. Valorizza e contribuisce a creare la giusta cornice. Ma ci sono delle riserve. Se è di uno splendore inconsueto, può fare ombra o addirittura azzerare l’effetto di quello che si vuole mostrare. O peggio far notare i diversi livelli, di cui uno irraggiungibile. Per questo ha avuto coraggio, e una sicurezza ben riposta nel suo lavoro, Carlo Pignatelli nel proporre la sua Wedding Story in uno dei più straordinari palazzi del centro storico milanese. E la scelta gli ha dato ragione. Gli abiti da sposa non solo erano all’altezza, ma venivano esaltati dal contesto. Il palazzo, in via Meravigli fu fatto costruire nel 1876 dai fratelli Turati, da cui prende il nome, dall’architetto Lodovico Pogliaghi uno dei migliori dell’epoca. L’esterno in stile neo-rinascimentale richiama con il rivestimento in bugnato rustico, voluto dai committenti, il palazzo dei Diamanti di Ferrara. Il cortile con colonnato è imponente, come è notevole lo scalone d’accesso. Ma sono soprattutto i saloni ad affascinare per i soffitti decorati, gli stucchi, le dorature, i cornicioni, gli splendidi pavimenti e gli straordinari affreschi, tra cui quelli di Mosé Bianchi nella Sala della Flora. Eppure gli abiti, bianchi o nelle sfumature che vanno dal bianco giglio al bois de rose, dal giallo primula all’avorio fresia, riescono a imporsi, ad attrarre l’attenzione. Sono indossati da modelle sedute o in piedi, immobili, ma non imbalsamate. Statiche, ma reali. Pur nella loro varietà  seguono tutti la stessa tendenza che è quella di un’attenzione alla tradizione, perché per la sposa è fondamentale, ma con quel tocco di creatività per rinnovare, lontano dal revival. Giochi di ruches, ricami, plissé soleil,nei tessuti più suntuosi e classici. Quanto alle linee scollature sempre presenti anche sulla schiena, ma moderate, donanti ma mai eccessive. Qualche strascico, ma senza arrivare al costume. Punto vita sempre sottolineato, per un’esaltazione del femminile. A completare la scena modelli con gli abiti di Carlo Pignatelli Cerimonia, in tessuti preziosi e ovviamente esclusivi.

giovedì 19 maggio 2016

AMARCORD 1980


Chissà se piacerà a Guccini. Il cantautore è atteso, ma non si sa se verrà. In Talkin’ Guccini, di amore, di morte e altre sciocchezze, al teatro Menotti a Milano (fino al 4 giugno), il suo mix di impegno, musica, amicizia, racconti scanzonati, viene fuori  bene con la regia di Emilio Russo, che ne ha scritto anche i testi. Sempre sul filo del ricordo, certo, ma senza nostalgie melense e con solo un pizzico di reducismo sessantottino. In scena un’osteria di Bologna in una caldissima sera del 1° d’agosto 1980, che solo La locomotiva intonata da attori e figuranti, a fine spettacolo, rivela preludio della strage nella stazione.
 Foto Laila Pozzo
Tra i tavoli gira l’ostessa Serafina, una Lucia Vasini convincente e a suo agio in una parlata bolognese zeppa di dialettismi. A interrompere le sue divagazioni su minestre e avventori del passato, un frate ubriacone con uno strano interesse missionario  per le donne (Fabio Zulli) e Vacca d’un cane(Enrico Ballardini) chiamato così per la colorata interiezione con cui farcisce i racconti da musicista sognatore e un po’sfigato. E poi la Matta (Andrea Mirò) con le sue storie surreali e la sua collezione di cartoline improbabili. Parlano, cantano, ballano, ricordano. Le canzoni trascinano il pubblico (anche i giovanissimi), ma è la rappresentazione di una certa umanità data dai quattro a dare il tocco speciale.  Ad accompagnarli al piano Alessandro Nidi. A rendere più che mai guccinesca l’atmosfera, con voce e chitarra, Juan Carlos Flaco Bondini,  dal 1976 chitarrista  di Guccini e ispiratore del progetto. Dopo aver visto lo spettacolo di Emilio Russo su Fabrizio De André.

mercoledì 18 maggio 2016

PERCHE' NON PARLI?


Chi ha osservato un gorilla da vicino, in uno zoo, non può che essere rimasto incantato da quella sua straordinaria somiglianza con l’umano. Quegli occhi scrutatori, quella testa con le rughe di chi medita, quei movimenti un po’ goffi da omaccione. Non c’è da stupirsi se Dian Fossey abbia dedicato la sua vita a studiare i primati e sia anche morta, in circostanze misteriose, ma sicuramente per difenderli. Non è così strano quindi che  Gigi Bon abbia deciso di fare di un gorilla il soggetto di una  scultura iperrealista. E non solo, per insistere su quella sua aria da pensatore, l’abbia ritratto appoggiato a pile di libri.             Dietro la scelta  dell’artista veneziana, accanto all’interesse per l’antropomorfo, un grande amore per gli animali.  Non tutti, per quanto amati, rientrano però nella sua arte. Tartarughe, ippopotami, elefanti ma soprattutto rinoceronti i suoi modelli. “Mi sento un po’ rinoceronte, da bambina ero molto schiva, chiusa in me stessa, ora sarei stata considerata autistica, ed ero colpita dal baby rhino sul pavimento della Basilica di S.Marco. Lo vedevo come un animale fantastico, chiuso nella sua corazza protettrice”.  Nel suo Mirabilia, atélier-galleria dal sapore di una Wunderkammer in calle Malipiero (dietro a Palazzo Grassi, dove dicono sia nato Casanova) ci sono parecchi rinoceronti di varie dimensioni. Mai life size. “Mi piacerebbe realizzarne uno, ma dovrei avere uno sponsor”. Bon lavora sulla cera persa, più morbida della creta e poi fa realizzare i bronzi in fonderia, tutti pezzi unici, quindi molto costosi. Nel curriculum dell’artista nessun corso d’arte, ma solo una grande passione. Laureata in giurisprudenza e con un’avviata attività di consulente finanziaria, a 40 anni  Gigi Bon dopo un anno sabbatico decide di lasciare tutto per dedicarsi a scultura e pittura. “Ho imparato lavorando, specie in fonderia, provando, riprovando, anche sbagliando”. Inevitabile la domanda se per i suoi ritratti si documenti dal vivo. “No guardo le foto, i filmati, i documentari, ora ce ne sono moltissimi su You Tube. Conosco solo il rinoceronte. Quando ero piccola ero talmente presa da questo animale, che mia mamma mi portò allo zoo a vederlo”.(Foto di Giovanna Dal Magro)